Le parole che seguono appartengono a Greta, figlia di un nostro ospite affetto da SLA. Abbiamo scelto di condividerle perché rappresentano un prezioso omaggio alla figura del caregiver: una presenza spesso silenziosa, ma di importanza insostituibile. Attraverso la scrittura, Greta ha saputo dare voce a emozioni profonde e a un’esperienza che riflette il coraggio, la dedizione e le difficili scelte che accompagnano chi si prende cura di una persona cara. La ringraziamo per aver condiviso con noi pagine così autentiche e significative.
Napoli, 5 Agosto 2025
Caro Diario,
oggi ti scrivo da una stanza di ospedale.
Accompagno mio padre per un ricovero di qualche giorno, l’ennesimo ricovero.
Da quando gli è stata diagnosticata la SLA, nel mese di novembre 2023 all’età di 62 anni, l’ho accompagnato durante sei ricoveri, di cui due della durata di un mese ciascuno.
È questo il ruolo del caregiver, una figura fondamentale nel decorso di una malattia così devastante come la SLA, una figura di cui si parla poco perché troppo spesso, con giusta ragione, l’attenzione si concentra sulla persona del malato, il quale riceve una diagnosi che suona più come una sentenza.
La SLA, infatti, è una patologia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, ovvero le cellule nervose responsabili del controllo dei muscoli volontari.
Essa porta a una progressiva perdita delle capacità motorie, compromettendo funzioni vitali come la deglutizione, la parola e la respirazione.
Rende il malato non autosufficiente e totalmente dipendente dall’assistenza prestata da un’altra persona, il caregiver appunto.

Prima di ricevere la diagnosi di SLA, quella del caregiver era una realtà a me totalmente sconosciuta. Ne avevo sentito parlare durante la pandemia di Covid-19, quando questa categoria fu inserita fra le categorie prioritarie per l’accesso al vaccino.
Successivamente, alla comparsa dei primi sintomi della patologia, mi fu subito chiaro che mio padre, a cui è stata diagnosticata la SLA bulbare (la forma più aggressiva), avesse bisogno di un aiuto costante, un supporto sia fisico (per lo svolgimento degli atti quotidiani della vita), sia morale, volto all’accettazione di una serie di cambiamenti importanti, inevitabili, del proprio stile di vita.
Nato in un piccolo comune in provincia di Reggio Calabria, mio padre è sempre stato un uomo attivo, indipendente, un avvocato con uno studio avviato da più di 30 anni. Gli piaceva praticare footing, seguire il ciclismo, andare in barca. Si considerava uno spirito libero. Quando non lavorava, difficilmente restava a casa, amava coinvolgere noi figlie in gite fuori porta.
Per tutti questi motivi, per lui è stato molto complesso, se non impossibile, accettare di rinunciare alle sue passioni più grandi oltre che al suo lavoro.
Forse la sfida più difficile che ho dovuto affrontare in qualità di caregiver è stata proprio provare a sollevare mio padre dalla depressione più profonda, trovare un modo per intrattenerlo all’interno delle mura domestiche quando non è stato più in grado di uscire per fare una passeggiata, cenare con gli amici o anche semplicemente sostenere una conversazione telefonica.
Soprattutto, come figlia, è stato inevitabile mettere da parte i miei sentimenti, le emozioni che derivavano dal vedere il proprio padre perdere ogni giorno qualcosa, per consentire a lui di esprimersi.
Quando si riceve una diagnosi di sla, è importante attivare da subito un supporto psicologico, supporto che purtroppo le ASL spesso forniscono quando ormai la malattia è già avanzata.

A tal proposito, mi sovviene che essere cargiver significa anche doversi confrontare con una burocrazia sanitaria lenta, incapace di rispondere in tempi rapidi alle esigenze di un malato colpito da una patologia a prognosi infausta.
Sin da subito, ho faticato per consentire a mio padre di vedere i propri diritti riconosciuti: ho attivato l’assistenza domiciliare, abbiamo ottenuto in pochi mesi la pensione di invalidità e l’indennità di accompagnamento, ho richiesto e ricevuto i presidi ortopedici necessari a consentire spostamenti in sicurezza.
Ricordo che passavo ore ed ore presso le sale d’attesa del distretto sanitario di appartenenza. Tutta la stanchezza era però ricompensata dalla consapevolezza di fare del bene a mio padre, di assisterlo nel modo più dignitoso possibile.
Perché, come dico sempre, occorre dignità anche nella malattia.
Subito dopo aver ricevuto la diagnosi io e mio padre, separato da mia madre già da alcuni anni, ci trasferimmo in una nuova abitazione. Era un continuo via vai di medici, infermieri, logopedista e fisioterapista. La difficoltà più grande di quel periodo fu imparare a cucinare pietanze dalla giusta consistenza (io che a malapena sapevo fare il caffè) perché il rischio di ab ingestis (cioè la possibilità che il cibo finisse nelle vie respiratorie) era molto elevato.
Tant’è vero che dopo soli 6 mesi dalla diagnosi, ad aprile 2024, mio padre ha accettato di sottoporsi all’intervento per l’impianto della PEG, una soluzione individuata per somministrare cibi, liquidi e farmaci direttamente nello stomaco del paziente. Un presidio che ha consentito a mio padre di riprendere peso, di alimentarsi in sicurezza e la cui gestione mi è risultata piuttosto semplice.
Come caregiver, ho osservato che la scelta della peg, anche se sofferta, non è stata limitante per mio padre: dopo soli due mesi dall’intervento, le mie sorelle ed io siamo riuscite a portarlo in vacanza al mare; l’unica attenzione che dovevo avere era quella di medicare l’impianto una volta fuori dall’acqua e di rispettare i tempi di somministrazione della nutrizione.
Il ricordo di quella vacanza è un ricordo felice: far tornare papà nella sua terra è stato per me fonte di gioia e di soddisfazione, ma anche motivo di sacrificio e di rinunce.

Sì, perché la vita del caregiver, pur se imparagonabile a quella del malato, è pur sempre una vita di dedizione e di abdicazione, direi quasi di devozione verso il proprio familiare.
La SLA, poco a poco, sottrae a chi ne è colpito la capacità di svolgere tutti gli atti quotidiani, di rispondere autonomamente ai propri bisogni primari. Bisogni che vengono soddisfatti dall’attività costante del caregiver.
Ricordo ancora le difficoltà nel lavare papà in bagno invece che a letto: in quel momento non c’era nessuna vergogna, nessun imbarazzo, eravamo solo un padre e una figlia che non volevano rassegnarsi alle conseguenze dell’inevitabile decorso della patologia.
L’ultima tappa nel percorso di vita di un caregiver e di un malato di SLA è rappresentata dall’intervento volto al posizionamento della tracheostomia a cui mio padre si è sottoposto nel mese di Febbraio 2025.
Già da qualche mese, manifestava difficoltà respiratorie e una cattiva gestione delle secrezioni. Spesso ero chiamata ad aspirare i muchi, nonostante lui rifiutasse questa pratica. La paura, unita alla consapevolezza del peggioramento del quadro clinico, furono i sentimenti che ci accompagnarono in quelle settimane fino al ricovero che ha determinato il ricorso alla tracheostomia.
So che molte persone, soprattutto tra quelle affette da SLA, non concordano circa la scelta di sottoporsi ad un tale intervento.
Nel nostro caso esso è stato un vero e proprio salvavita, ha spazzato via la preoccupazione e l’angoscia che vedevo negli occhi di mio padre ogni volta che avvertiva il senso di soffocamento da mancanza d’aria. A lui ha consentito la sopravvivenza, a me ha dato la possibilità di godermi ancora il mio papà.
Sebbene in ospedale fossi stata addestrata per una gestione domiciliare della tracheostomia, sin da subito mi resi conto della necessità della presenza di personale qualificato h24.
Inoltre, avvertivo la responsabilità del rientro a casa come un peso soffocante, un sacrificio troppo duro per la mia giovane età. Così ho pensato di rivolgermi ad una struttura specializzata nel trattamento di una patologia ingravescente come la SLA e ho deciso di trasferire mio padre in hospice.
Sono consapevole del fatto che non tutti, tra familiari ed amici, hanno approvato questa decisione. Ma, in qualità di unica caregiver, so anche che è stata la scelta migliore tra quelle prese durante questi anni.
In questo modo ho garantito a mio padre un’assistenza continua, dignitosa e ho garantito a me stessa la possibilità di riprendere in mano la mia vita. Soprattutto i miei studi, a cui ho dovuto inevitabilmente rinunciare per prendermi cura h24 di lui.
Se c’è una cosa che la SLA mi ha insegnato più di ogni altra è che per stare bene il malato è necessario che stia bene, in primis, il caregiver che lo assiste.
Anche se sofferta, la scelta dell’hospice mi consente di visitare papà in qualità di figlia e non più di “badante”.

Ad oggi mi sento più libera, ho più tempo da dedicargli con tutta la serenità possibile. Un tempo fatto di lunghe passeggiate nei giardini della struttura ad ascoltare la sua musica preferita. Un tempo fatto di lunghi momenti di silenzio perché spesso è nel silenzio che un padre e una figlia si dicono le cose più belle.
Grazie papà per aver compreso e condiviso con me questa scelta e per insegnarmi, anche nella sofferenza, la voglia di vivere. Il tuo coraggio e la tua resilienza sono i valori che inseguirò per sempre nella mia vita, a prescindere da come andrà a finire questo viaggio.
Finora è stato un viaggio bellissimo.
Caro diario,
per il momento ti saluto. C’è papà che mi aspetta per un’altra passeggiata.
A presto.


